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Mentalizzazione: scopri il suo significato in psicologia secondo Fonagy e alcuni esempi

mentalizzazione

Supponiamo che tu abbia appena visto qualcuno inciampare sbattendo violentemente un dito del piede. Qual è la tua reazione immediata? Probabilmente sei rabbrividito al pensiero o ti sarai detto che è una cosa terribile e dolorosa.

Ma cosa c’è di terribile in questa immagine per te se non sei stato tu a inciampare ma piuttosto sei al sicuro dall’altra parte della stanza e stai solo guardando la scena? Il motivo per cui si tratta di un pensiero sofferto è che, senza dover inciampare anche tu, puoi immaginare il dolore che causa quell’incidente.

Puoi capire, senza che te lo dicano, che la persona che è inciampata non lo ha fatto intenzionalmente e che il fatto di essere inciampato potrebbe essere fonte di molti sentimenti diversi: non solo di dolore fisico, ma anche di frustrazione, sorpresa e forse imbarazzo.

Questo scambio silenzioso e consapevole è umano e si riferisce alla capacità di pensare a ciò che potrebbe avvenire nella mente degli altri (l’abilità di metterci nell’esperienza di un’altra persona) è qualcosa che lo psicoanalista di origine ungherese Peter Fonagy ha definito come mentalizzazione.

Mentalizzazione ed empatia: il significato secondo Fonagy

Fonagy descrive questa capacità di immaginare ciò che succede nella mente degli altri come qualcosa di ancora più complesso dell’empatia. L’empatia, secondo Fonagy, è qualcosa che si può provare per una persona, basata sulla capacità di immaginare ciò che l’altra persona sta provando.

L’immaginazione dell’esperienza dell’altro che è è in grado di suscitare l’empatia, ecco, questa è la mentalizzazione. E l’aspetto molto importante della mentalizzazione è che, come sostiene Fonagy, deriva tanto dalla conoscenza delle altre persone quanto da una conoscenza molto profonda di se stessi.

L’empatia è un sentimento che deriva dalla capacità di dire: “Se fossi io, mi sentirei così”. Quando osservi qualcun altro inciampare sbattendo violentemente il dito del piede, è probabile che pronuncerai qualcosa come “Ahi!” o “Oh no!”, basandoti solo sulla consapevolezza che se fosse stato il tuo dito, avresti provato molto dolore.

Grazie alla tua conoscenza di te stesso, sei in grado di mentalizzare l’esperienza dell’altro: ovvero che ha sbattuto il dito, che non era sua intenzione farlo e che probabilmente gli ha fatto molto male, in molti modi diversi perché potrebbe non aver provato solo del dolore fisico ma anche frustrazione, e persino imbarazzo se l’incidente è avvenuto di fronte ad altre persone.

Mentalizzazione: scopri il suo significato in psicologia secondo Fonagy e alcuni esempi

Mentalizzazione e infanzia: si comincia dal linguaggio del corpo

Fonagy sostiene che questa consapevolezza di sé si sviluppa molto presto nella vita, da bambini, attraverso le relazioni con gli adulti che si prendono cura di noi.

Allo stesso modo in cui noi possiamo dire “Ahi!” quando vediamo qualcun altro che inciampa e sbatte un dito del piede, è probabile che chi si è preso cura di noi nell’infanzia abbia detto “Ahi!” quando ci ha visto cadere, urtare con la testa o sbattere le ginocchia.

I nostri caregiver, quando eravamo piccoli, erano lì per dare un nome ai nostri sentimenti quando ci sentivamo arrabbiati, delusi, felici o spaventati. Si tratta di un esempio di mentalizzazione più profondo e molto più sfumato, anche di quello che ci fa trasalire quando guardiamo qualcuno subire una piccola ferita.

La mentalizzazione di ciò che potrebbe accadere nella mente di un’altra persona in un momento di reale disagio – rabbia, paura, incomprensione, solitudine – è un’abilità che sviluppiamo man mano che i nostri bisogni e le nostre capacità di interazione si approfondiscono.

Quando siamo piccoli, chi si prende cura di noi fa molto per gestire le nostre ansie legate alla pappa, al cambio del pannolino e al conforto; man mano che cresciamo, impariamo che i nostri genitori sono in grado di capire e dare un nome alle nostre emozioni contrastanti: la tristezza nella rabbia, il bisogno di attenzione nelle nostre crisi, per citare solo due dei tanti esempi.

La capacità dei nostri genitori di dare un nome alla nostra complessa esperienza emotiva ci ha dimostrato che ciò che è nella nostra mente può essere catturato nella mente degli altri. Il fatto che qualcuno potesse identificare i nostri sentimenti per noi, ci ha aiutato a sviluppare la capacità di riconoscere i nostri stessi sentimenti.

E poiché chi si è preso cura di noi è stato in grado di dare un nome ai nostri sentimenti, la nostra comprensione delle menti e delle esperienze altrui deriva da quella conoscenza sviluppata di come ci siamo sentiti e ci sentiremmo.

Più siamo in sintonia con noi stessi, più riusciamo a farci capire. Ma questa comprensione di base di noi stessi deriva dalla capacità dei nostri genitori, o di per loro, di mentalizzare la nostra esperienza e di tradurla in parole per noi. Si crea così un vero e proprio circuito di feedback: siamo comprensibili agli altri, il ché ci rende comprensibili a noi stessi, il ché ci rende ancora più comprensibili agli altri.

Naturalmente, quello che viene descritto qui è un circuito di feedback ben funzionante. Spesso, invece, capita che i nostri sentimenti, nel corso dell’infanzia, non siano stati convalidati e che quindi ci siamo sentiti incompresi e soli. 

Ecco perché la psicoterapia può essere un’esperienza profonda perché è un profondo esercizio di mentalizzazione. Avendo uno spazio per pensare, parlare ed esprimere ciò che ci passa per la testa, ci diventa accessibili a noi stessi in un modo nuovo e illuminante. Il terapeuta è lì per fornirci l’esperienza molto importante di essere compresi.

Questo, come la mentalizzazione, può aiutare a capire meglio se stessi. Peter Fonagy ritiene che la mentalizzazione svolga un ruolo enorme nel processo di guarigione tipico della psicoterapia, ma a un livello ancora più ampio, svolge un ruolo unico e intensamente intrinseco nel modo in cui siamo umani insieme, non solo gli uni con gli altri ma anche con noi stessi.

Mentalizzazione e funzione riflessiva in Psicologia

A volte il concetto di mentalizzazione e quello di funzione riflessiva vengono sovrapposti ed è solo in parte corretto. 

La funzione riflessiva è la capacità di immaginare stati mentali nel sé e negli altri. Grazie a questa capacità di riflessione, gli individui sviluppano l’abilità di comprendere le proprie risposte comportamentali e quelle degli altri come un tentativo significativo di comunicare stati mentali interiori. La funzione riflessiva è la capacità unicamente umana di dare un senso all’altro.

La mentalizzazione, come abbiamo visto, è la capacità di evocare, comprendere e riflettere sui propri e altrui stati mentali. Denota la capacità di immaginare e pensare esplicitamente agli stati mentali, ossia pensieri, sentimenti, intenzioni, credenze, motivazioni, emozioni, desideri e bisogni.

Quindi possiamo concludere che il funzionamento riflessivo può essere considerato come la manifestazione della capacità di mentalizzare.

mentalizzazione charlie fantechi

Mentalizzazione e attaccamento: correlazione ed esempi

Come abbiamo già sottolineato la mentalizzazione è un’abilità appresa da bambini e diventa un processo automatico quando si raggiunge l’età adulta.

Si sviluppa in funzione del modo in cui i genitori che promuovono un attaccamento sicuro, riflettono al bambino le loro esperienze: è così che i bambini imparano a conoscere il loro “io”, ciò che significa essere se stessi e la propria esperienza del mondo (e delle persone, emozioni, circostanze, etc..).

Quando un genitore sicuro vede un bambino fare una smorfia nel momento in cui assaggia un nuovo cibo, potrebbe dire: “Che schifo? Non ti è piaciuto, vero? Era disgustoso?”.

E nel cervello del bambino questo potrebbe tradursi come “Bleah”: insomma “questo è il sapore che ho in bocca e la faccia che ho appena fatto e significa che non mi piace affatto, mia madre (o mio padre) lo capisce e può vedere questa esperienza in me”, il ché ovviamente rende il genitore una persona sicura con cui esplorare pensieri, emozioni ed esperienze.

Il genitore sicuro sa che se riesce a comprendere il mondo del bambino, svilupperà un linguaggio condiviso per parlare delle esperienze. E il bambino inizierà a modellare il processo di mentalizzazione del genitore.

Se il genitore fa una smorfia, il bambino potrebbe dire: “Anche tu pensi che sia disgustoso” e provare piacere nel leggere la mente e l’esperienza. E la buona notizia è che non è nemmeno necessario azzeccare sempre tutto.

Peter Fonagy, infatti, ha osservato che lui e altri genitori se la cavano piuttosto bene se hanno ragione il 50% delle volte. Ma questo è un bene: insegna al bambino che io posso vedere la tua esperienza, ma che tu e io possiamo guardare gli stessi eventi e averne un’esperienza diversa.

Per estensione, il bambino potrebbe avere un’idea di come stanno le cose dal suo punto di vista, ma sa che il genitore potrebbe avere un’idea completamente diversa delle cose.

La terapia basata sulla mentalizzazione

La terapia basata sulla mentalizzazione è un trattamento psicologico generalmente dedicato alle persone con disturbo borderline di personalità e altre condizioni di salute mentale, e che attinge da diversi approcci psicoterapeutici. È stata sviluppata negli anni ’90 da Anthony Bateman e Peter Fonagy.

La mentalizzazione, infatti, è una normale funzione cognitiva che risulta limitata nelle persone con disturbo borderline di personalità. Ecco perché il potenziamento della mentalizzazione e il miglioramento della regolazione emotiva sono al centro del trattamento di questa patologia.

Ma la terapia basata sulla mentalizzazione può essere un trattamento efficace per aumentare la capacità di mentalizzare non solo nelle persone con disturbo borderline di personalità, ma anche con chi manifesta una personalità antisociale, dipendenze, disturbi alimentari e depressione, anche quando altri trattamenti non hanno avuto successo.

Sebbene possa esserci una base genetica, l’incapacità di mentalizzare spesso deriva da un attaccamento insicuro a un genitore o da problemi di abbandono all’inizio della vita.

Se non si riescono a comprendere i propri sentimenti e quelli degli altri, è possibile avere difficoltà a regolare le proprie emozioni e i propri comportamenti problematici e a identificare correttamente i pensieri e i sentimenti degli altri.

Si potrebbe non capire l’intento che sta dietro al comportamento degli altri e reagire in modo impulsivo e inappropriato in modi che possono disturbare le relazioni. La terapia familiare, infatti, può incorporare aspetti della mentalizzazione per aiutare a guarire le relazioni tra genitori e figli.

Questo tipo di terapia condivide elementi e tecniche comuni con le terapie psicodinamiche, cognitivo-comportamentali, sistemiche, dialettiche e socio-ecologiche.

Gli operatori lavorano per creare un ambiente sicuro in cui i pazienti possano iniziare un’esplorazione profonda dei propri sentimenti e di quelli degli altri, sviluppando infine la loro capacità di mentalizzazione, concentrandosi molto sul presente e non tanto sul passato.

Ecco in sintesi come funziona. Aiuta i pazienti a pensare, prima di reagire, ai propri sentimenti o a quelli percepiti dagli altri.

Con una migliore capacità di mentalizzazione, i pazienti non solo elaborano in modo diverso i propri pensieri, sentimenti e comportamenti correlati, ma comprendono anche meglio che i pensieri, i sentimenti e i comportamenti di un’altra persona possono differire dalla loro interpretazione.

L’obiettivo della mentalizzazione non è solo una migliore comprensione di se stessi, ma anche una migliore comprensione di ciò che può guidare i pensieri e i comportamenti degli altri. Questa capacità aiuterà il paziente a non fraintendere il significato di un’altra persona e a rispondere in modo appropriato.

Sono stati condotti studi sulla mentalizzazione per il disturbo borderline di personalità e i partecipanti hanno mostrato un miglioramento dei sintomi depressivi, una diminuzione della tendenza al suicidio e un migliore funzionamento sociale e interpersonale, tra gli altri risultati.

La frequenza delle sedute può variare, ma alcuni terapeuti raccomandano 2 sedute alla settimana, sia a tu per tu con un psicoterapeuta che sedute di terapia di gruppo, e generalmente il trattamento dura allungo, anche oltre i 12 e i 18 mesi. 

Quindi, se dovessi renderti conto che le problematiche della tua vita potrebbero dipendere da difficoltà nella capacità di mentalizzazione, non esitare a contattare uno psicoterapeuta.

Prima di tutto potrai verificare se effettivamente è quella la radice dei problemi e poi potresti procedere con un terapia in grado di superare questo gap e finalmente riuscire a normalizzare la tua vita.

Ricorda che la mente è la componente più importante nelle interazioni con le altre persone. Per questo, comprendere meglio le connessioni tra te e gli altri, immaginando e interpretando correttamente i pensieri e i sentimenti altrui, non può che migliorare la tua vita di relazione.

DR.-FANTECHI---Psicologo,-Psicoterapeuta-Ipnotista

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